Concezione e intenti

Tempo di Viaggio [habitat contemporanei per il nessun dove]

Quel piacere dello spostamento che, in definitiva,
consiste solo nel ricordo
e mai nel presente

Joris-Karl Huysmans, A ritroso

Viaggio come corpo fragile

La suggestione del titolo del PNA XV è tratta dall’omonimo documentario – girato nel 1982 insieme a Tonino Guerra – del grande regista russo Tarkovskij. Il tema del viaggio ha da sempre dato spunto a molteplici opere della storia delle arti (dalla letteratura, al cinema, alla pittura, alla scultura, alla musica, etc.) e crediamo che – arrivati alla boa del 2020 – sia necessario riconfigurare questo tema nella contemporaneità.

Il viaggio, nella direzione dell’esergo di Huysmans, non è solo spostarsi da un dove a un altro dove o verso un nessun-dove, con tutta la mutevolezza del quotidiano etico che si tramuta di paesaggio in paesaggio, ma è la trasfigurazione intensa che la memoria incide sul suo corpo fragile. Si, perché il viaggio è un corpo fragile. Anzi, potremmo aggiungere che il viaggio diviene, durante il suo svolgersi il non-corpo-reale di un’idea che cresce.

E quest’idea spesso soffre di un eccesso di passato, nel senso che questi lotta come un anticorpo per normalizzare il nuovo corpo, oppure lo accoglie ma con l’accondiscendenza che si riserva all’esotico, quando l’altro da sé rimane tale: guardato a distanza come un semplice e raso spettacolo.

In tal senso lo spostamento huysmaniano non accede al presente, né lo rende immanente. Esso rimane prerogativa assoluta del ricordo: vero autore incolpevole dei nostri viaggi. Il ricordo funziona, seguendo questa linea obliqua, come il concetto di tempo in Bergson. Ne è una variabile consona e cospicua. Il viaggio, allora, vive di questa contraddizione massima: esso comincia veramente solo quando è finito. Arriva sempre dopo. E quel dopo dimora sempre, o quasi, nel troppo tardi.

L’esplicazione del suo presente vive e si sviluppa nello spazio del “frattempo” o nella via di mezzo che permette solo fisiche “traduzioni”, lente o veloci (comunque inessenziali), di corpi. Potremmo dire, dunque, che il sintomo del viaggio è possibile solo a posteriori, perché nel momento in cui si viaggia non possiamo che essere (solo) viaggiatori.

La pelle del viaggio

Il problema invece è il tentativo di divenire “viaggio”, di essere intessuti dello stesso DNA del viaggio, a noi sconosciuto. Solo allora possiamo far parte delle tessere che costituiscono la pelle del viaggio. Ovvero per poterne avere contezza dobbiamo –momentaneamente – sparire e abbandonare tutti i motivi o desideri che ci hanno fatto intraprendere il viaggio stesso.

Bisogna dimenticare di viaggiare: lasciarsi stare, dislocando il pensiero oltre ogni sindrome o delirio di conoscenza. E questa lucida dimenticanza costituisce la vera essenza del viaggio, il suo essere un grande puzzle cui attingere e da cui farsi sedurre poiché, come dice Saramago “…il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono”. E il viaggio si nutre dei viaggiatori, li divora e li incanta con le note intense del piacere dell’ignoto, anche se, spesso, in realtà si viaggia su linee di demarcazione già segnate, già frantumate, già consumate. Anzi, il noto è la meta più frequentata, allorché il viaggio diviene in questo caso una forma subdola di auto-seduzione. Una sorta, insomma, di illusione panoptica, sotto controllo. Seguendo questa pista, il viaggio come ritorno, come Nostos di Ulisse, non è che una pura velleità, un habitat impossibile.

Nella maggior parte dei casi, nei viaggi, parte solo il corpo e non la cultura che l’ha forgiato. Parte solo “spostamento”, ovvero semplici e crude cellule in mobilità.

Il resto rimane a casa. E in tal senso il ritorno è solo una pratica formale senza sostanza.

“(...) Non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da sé stessi non si può fuggire”, scriveva Tarkovskij in Tempo di viaggio nel 1983. Il senso più intimo della poetica di Tarkovskij sul viaggio è tutto rivolto a questa impossibilità logica, a questo paradosso della cognizione umana del viaggio. Ovvero, l’unico viaggio possibile è quello “che facciamo nel nostro mondo interiore”, aggiunge il grande regista russo. Il che indica molto precisamente il senso del viaggio come trasformazione della materia individuale, della cognizione del sé in apporto all’estraneo.

Nostalgia, il dolore del ritorno

“Il viaggio è nella testa”, scriveva Baudrillard. E fuori dalla testa tutto è estero, tutto è straniero, tutto è altro. Ogni io altro da me vive all’estero della mia coscienza. In questa direzione il viaggio non è che il correlativo oggettivo di questa distanza. Viaggio allora è andare “verso”, cioè contro. Contro le proprie credenze, le proprie costruzioni, i propri idoli. L’universo della maggiore età del viaggio frantuma le cause che l’hanno generato o ne fa a meno, le mette in sonno, le richiude laddove non possono inquinare l’ignoto.

L’unica forma possibile di conquista dell’ignoto è la navigazione in questa regione priva di a-priori, ovvero priva di ciò che è prima. L’idea di Chatwin secondo cui il viaggio dà forma alla mente, oltre che allargarla, risiede in questa sua capacità di espansione dinamica, di inglobare le cose lasciando che queste rigenerino una nuova idea di mondo, una nuova irrequietezza, un nuovo disincanto. E si può conquistare l’ignoto solo con l’attivazione di un occhio innocente, ovvero all’etimo l’occhio che non nuoce.

Lo indicava molto bene Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.

Senza questi nuovi occhi il viaggio, questa gracile creatura impossibile da abitare, non è che l’esternazione di un tragitto, di un trasporto, di una manciata di tempo che si riduce a un’andata con ritorno. Ma non si può tornare nello stesso posto da cui siamo partiti, ricordava poc’anzi Tarkovskij, e non solo perché sia cambiato ciò da cui siamo partiti, ma perché qualcosa si è in noi modificata irreparabilmente. Secondo quest’idea, il ritorno non può esistere se non come dato balistico del solito spostamento.

Ecco perché nasce la nostalgia, ovvero il dolore del ritorno. Il nuovo che il viaggio ha nutrito in noi è la vera conquista, il vero scacco matto all’insipienza del già noto. Ciò che si guarda al ritorno è allora il vero nuovo, l’ignoto che credevamo di conoscere.

I sentieri si costruiscono viaggiando

In realtà la declinazione del viaggio è il ri-conoscere, il mettere in sintonia il preesistente, dargli una forma sintattica, rilevare tutte quelle assonanze sotterranee tra le differenze.

E anche portare ad epifania lo spazio che rende possibili queste assonanze le cui “radici” funzionano solo come un incidente probatorio.

Tutto questo fuori dalla vigorosa, ma inane, progressione “partenza- arrivo-ritorno”. Franz Kafka dice che i “sentieri si costruiscono viaggiando”. E così anche i tragitti, che non sono altro che tracce consolidate, rese fruibili dalla reiterazione del gesto del viaggio: tracce che sono, in definitiva, la sua negazione. Se il tragitto reiterato porta alla costruzione di un itinerario, ebbene questi “viaggia” contro le radici e diviene una sorta di mozione - è il caso di dirlo- che trasloca il viaggio dalla verticalità fissa della radice all’orizzontalità ipermobile del rizoma; mozione che trasforma il viaggio (la sua ipotesi) in un’emozione di perdita di conoscenza senza soluzione di continuità. Il viaggio, in tal senso è un metaviaggio, un terzo occhio sradicato dalle strettoie monadiche dei luoghi e gettato nell’ampio cono di luce della pluralità degli attraversamenti. Sant’Agostino diceva: “il mondo è un libro e chi non viaggia ne conosce solo una pagina”. Possiamo aggiungere che il mondo è una pluralità di testi e chi non viaggia non solo non ne conosce che una pagina ma non esiste nemmeno. E nel momento in cui – nel viaggio – vuole esistere scompare.

Il viaggio come esperimento mentale galileiano

In altro senso, il viaggio, imprendibile senso del già noto, nel momento in cui lo comprendo, ovvero nell’attimo in cui lo prendo con me, lo annullo. Azzerando, così, anche me stesso. Il viaggio, insomma, è la forma più complessa di seduzione: è cercare di farsi sedurre e, ad un tempo, è il tentativo di sedurre. Farsi conquistare e conquistare. Accedere al mondo, o a un qualche suo livello, portandolo a sé, forse per un istante, forse per sempre: foss’anche nell’assoggettamento dell’illusione.

Il viaggio è allora un atto di seduzione permeabile che porta con sé le stigmate dell’invasione corporea, dell’osmosi provocata dalla passione, dell’inglobazione acritica di ogni sensazione. In realtà il viaggio è portatore sano dell’assenza di saggezza, ma il viaggiatore, dimentico di sé, allude solo alla sua dimensione conoscitiva, considerando esclusivamente la condizione dimessa delle (irrinunciabili) certezze come vertice del suo cammino apocrifo. Ha forse il viaggio le caratteristiche per essere solo l’immagine di un esperimento mentale galileiano? Senza partenze, senza arrivi, senza ritorni.

Epilogo tematico

Il XX secolo ha sancito l’assoluta necessità di muoversi.
E il XXI secolo, seppur ancora giovane, riconferma quanto sia
vitale il bisogno di cercare un altrove geografico e fisico per placare l’ansia del sé.

Il movimento come necessità.
Il viaggio come necessità.
Il viaggio come urgenza.

In quest’ottica, assume centralità la dimensione concettuale
del viaggio, portatore di cambiamento.

Il cambiamento come elaborazione del presente.
L’indagine come elaborazione del presente.
L’indagine come svelamento dell’Io e dell’inconscio.

Il viaggio proposto da Tarkovskij è immersione nella densità
dello spazio metafisico, è resistenza alla banalità dei luoghi.

È ricerca modernista – psicoanalitica – di un luogo che esiste
esclusivamente nei meccanismi mentali del vero viaggiatore/artista.

È anelito a riempire il vuoto con l’essenza dell’essere.
È esaltazione dei paesaggi o architetture anonime.

L’arte come cambiamento.
L’opera d’arte come cambiamento.
L’opera d’arte come habitat dell’Io nel “nessun dove”
della memoria che fonda il futuro.

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